Un filo diretto con l'etologia cognitiva e relazionale

Filosofo, etologo e zooantropologo.
Da oltre vent’anni conduce una ricerca interdisciplinare volta a ridefinire il ruolo degli animali non umani nella nostra società.
Direttore del Centro Studi Filosofia Postumanista e della Scuola di interazione uomo-animale (Siua), è autore di oltre un centinaio di pubblicazioni nel campo della bioetica animale, delle scienze cognitive e della filosofia post-human.
È inoltre direttore della rivista “Animal Studies”, la Rivista Italiana di Zooantropologia (Apeiron).

L’animale necessario: intervista a John Bradshaw

All’inizio delle loro carriere, John Bradshaw e alcuni suoi colleghi dovettero inventare un termine che indicasse ciò a cui avevano deciso di dedicarsi: la parola nuova fu Anthrozoology (antrozoologia), coniata per dare un nome allo studio delle interazioni tra l’essere umano e gli altri animali.

Oggi, dopo quasi trent’anni, nel suo nuovo libro, The Animals Among Us, Bradshaw si trova a sfatare alcuni miti circa quegli animali d’affezione che sempre più numerosi abitano le nostre case.

Dalla sua casa di Southampton, in Inghilterra, Bradshaw spiega perché la maggior parte degli scienziati non considerasse degno di studio il legame tra le persone e i loro animali; racconta perché le donne della tribù amazzonica degli Awá-Guajá allattano al seno i cuccioli di scimmia; dice perché avere un animale in casa sia così importante, specialmente per i bambini, il cui mondo è sempre più ridotto al display di uno smartphone.

S. W. Uno dei miti che lei pone in discussione è che gli animali d’affezione ci facciano stare bene. Credo che la maggior parte dei proprietari la pensi invece in questo modo!

J. B. Le ricerche hanno mostrato che le persone che vivono insieme ad animali sopravvivono più a lungo dopo un infarto. La spiegazione più probabile è che queste persone si trovassero in un migliore stato di salute già prima dell’attacco di cuore, rispetto alle persone senza animali, e questo per tutta una serie di ragioni che sono state confermate dagli studi della Rand Corporation.

Tali studi hanno preso in esame alcuni campioni di persone nello Stato della California e hanno evidenziato dei pattern ricorrenti.
Gli animali vengono adottati da coloro che possono permetterselo sia in termini economici che di stile di vita: le persone con una vita stabile, che hanno dei figli, che vivono in case monofamiliari piuttosto che in appartamento e, per dirla schiettamente, appartengono al gruppo caucasico hanno una salute migliore. E questo non è dovuto ai loro animali. L’adozione di un animale è la conseguenza dello stile di vita sano e abbiente, non la causa.

S. W. Altre affermazioni che lei mette in discussione sono quelle che dicono che gli animali possono provare imbarazzo e senso di colpa e che sono in grado di fare progetti. Se lei potesse vedere la faccia del mio dalmata quando combina un malestro o quando sta chiaramente pensando di fuggire dal giardino, penso che si ricrederebbe!

J. B. Sì, capisco cosa intende. Le persone interpretano questi comportamenti come intenzionali. Ma dobbiamo chiederci che tipo di emozioni provino gli animali in questi momenti ? A New York, Alexandra Horowitz ha mostrato che lo sguardo colpevole è in realtà un segno della grande abilità del cane di leggere il linguaggio non verbale umano. I cani assumono lo sguardo colpevole immediatamente prima che il proprietario vada ad assumere un’espressione arrabbiata per ciò che il cane ha fatto. I cani sembrano reagire alla nostra stessa velocità: appena ci giriamo a guardare il cane, lui ha già assunto l’espressione colpevole.

Per questo motivo, assumiamo che il cane si sentisse già colpevole prima che noi lo guardassimo, quando invece lo studio specifico mostra che il cane non assume alcuno sguardo colpevole fino al momento in cui il proprietario compare alla sua vista. E non occorre che la persona dica niente, è sufficiente che accenni anche soltato un lieve irrigidimento della postura.

Il cane cambia la sua mimica facciale quando viene osservato. Un recente studio mostra che quando le persone danno loro attenzione, i cani producono una più ampia gamma di espressioni facciali, fanno gli occhi tristi e assumono un’espressione infantile (Kaminski et al, 2017)

Chiediamoci quale capacità mentale occorra per provare il senso di colpa. In termini umani, il senso di colpa è sofisticato: occorre comparare qualcosa che abbiamo fatto nel passato con le nostre norme interne apprese nel corso di un lungo periodo di tempo. Non ci sono prove che la mente del cane possa fare la stessa cosa.

Non sto dicendo che i cani sia stupidi, tutt’altro. Reagiscono più velocemente al linguaggio del corpo delle persone di quanto noi stessi siamo in grado di fare. Ma se operiamo una assoluta sovrapponibilità emozionale, antropomorfizziamo e commettiamo uno sbaglio.

Per quanto concerne la capacità di fare progetti, le ricerche in questo senso sono tante, ma scarseggiano quelle riguardanti il cane. Il problema è fare comparazioni. Quantunque noi tutti possediamo il cervello di un mammifero, i dettagli della sua struttura sono differenti. La corteccia cerebrale, a cui dobbiamo la maggio parte della nostra attività di pensiero, è ridotta nel cane. I cani fanno affidamento principalmente sull’olfatto, sulla decodificazione di odori. Ancorché limitatamente, possiedono la capacità di pianificare nel caso abbiano affrontato particolari situazioni in passato, ma non sono in grado di immaginare loro stessi in una situazione in cui non si sono mai trovati.

S. W. Lei ha contribuito a coniare il termine antrozoologia. Ce ne spieghi il significato e perché avete ritenuto necessario inventare questo termine.

J. B. L’antrozoologia è  lo studio delle interazioni uomo-animale. Questa nuova parola è stata usata per la prima volta sul giornale della Tufts University di Boston, circa cinque anni prima della fondazione della società che avrebbe preso lo stesso nome (Society for Anthrozoology, ISAZ). Avevamo bisogno di un termine che descrivesse quello che stavamo facendo, poiché non si trattava di zoologia convenzionale.

A quel tempo, negli anni ’90, gli zoologi che si dedicavano agli animali domestici, come me, erano considerati una razza inferiore. Quindi, coloro che erano interessati a questo campo decisero di creare una società che riunisse i temi di studio condivisi tra zoologia, psicologia e altre discipline. Oggi, in molti Paesi, tra cui Gran Bretagna e Stati Uniti, è possibile addirittura laurearsi in antrozoologia. Si tratta di un termine, e di un concetto, che ha assunto un’importanza molto maggiore di quella che avremmo mai potuto immaginare quasi un trentennio fa.

S. W. In alcune società, le donne allattano al seno i cuccioli di altre specie. Che significato ha questo comportamento?

J. B. La società degli Awá-Guajá è di tipo matriarcale: le scimmie catturate in foresta sono affidate alle donne. Gli uomini, in genere, hanno il compito di uccidere la madre dei cuccioli catturati. I cuccioli sono portati al villaggio, nutriti al seno e, man mano che crescono, nutriti con cibo pre-masticato e poi con frutta e nocciole: essi rappresentano uno status symbol. La donna a capo del villaggio, la matriarca, è colei che possiede più scimmie. Le donne portano le scimmie addosso, attorno alla testa e sul corpo come marchio di riconoscimento.

In Giappone, presso gli Ainu esiste una tradizione che vede le donne allattare al seno i cuccioli di orso come fase del processo di costruzione del loro status. A inizio primavera, quando le femmine di orso adulte si risvegliano dal letargo e lasciano le tane insieme ai cuccioli alla ricerca di cibo, la famigli della donna va alla cattura dei piccoli. A questa età, i cuccioli di orso non sono ancora svezzati, e devono assumere latte, per cui l’allattamento al seno diventa parte del rituale. Quando gli orsi crescono, si organizza una festa dove questi animali vengono uccisi e la loro carne mangiata durante l’evento: in questa circostanza le madri surrogato umane si mostrano sconvolte. Dai racconti e dalle testimonianze non è chiaro se il dolore ostentato sia reale o una finzione parte del rito, ritengo che siano vere entrambe le ipotesi.

S. W. Lei ha scritto che “in certa misura gli animali sono costrutti immaginari” e che l’idea dell’animale “eroe” sia fuorviante. Conosco tante persone che non sarebbero d’accordo con lei, per cui ci potrebbe spiegare queste sue affermazioni?

J. B. È un tema complesso. Quello che non condivido è l’idea che un animale possa essere un eroe. L’eroismo è un concetto tutt’altro che chiaro anche in termini umani: perché le persone si sacrificano per un bene più grande? È facile razionalizzare, dopo che un evento si è verificato. Ma nell’enfasi momento, si tratta di qualcosa di cui non sono qualificato a parlare. Non è comunque un gesto così altruistico come in genere ci piace pensare.

Per essere un eroe, ammesso che abbia senso parlarne in questi termini, un animale dovrebbe rinunciare consapevolmente a qualcosa e porre se stesso a rischio in una situazione di cui conosce i potenziali pericoli. Credo che nessun animale premiato con onorificenze varie si fosse mai trovato effettivamente in una condizione simile.

Sono le persone che mettono gli animali in una condizione di rischio, anche se non deliberatamente. Sono i loro conduttori umani che li portano in un luogo dove il conduttore si è trovato improvvisamente in pericolo e il cane ha reagito facendo ciò per cui era stato addestrato, cioè difendere il suo conduttore. Il cane non ha agito in quel modo perché sentiva di agire per un bene più grande, la mente del cane non funziona così.

Ad un certo stadio, le nostre menti mutano ogni cosa in un costrutto immaginario. Sostanzialmente, ciò che facciamo con i nostri animali è imporre un accordo antropomorfico: siamo portati a immaginare che abbiano pensieri e intenzioni simili ai nostri, solo perché gli animali non sono in grado di spiegarsi chiaramente ai nostri occhi e alle nostre orecchie. Si tratta di una parte importante della mente umana. proiettiamo i nostri pensieri in ogni cosa, e nei nostri animali!

S. W. John, lei vive con animali? Se sì, ci racconterebbe di loro e che cosa le hanno insegnato?

J. B. Al momento non ho animali. Ho un nipote che soffre gravemente di allergia, pertanto abbiamo dovuto rinunciarvi. Ma ho condiviso la mia vita con animali per più di quarant’anni, sin da quando ero studente. Detto questo, non sono un fan degli animali d’affezione più dell’uomo medio. Sono solo un biologo che ama studiarli.

Ho avuto cani che mi hanno insegnato tanto su quello che è essere cane. Ho avuto gatti che hanno vissuto in casa, si sono accoppiati, e hanno allevato i loro piccoli, quindi ho avuto la fortuna di assistere tutti le fasi della vita di queste due specie, imparando quanto siano differenti. Soprattutto, i miei animali mi hanno insegnato l’individualità animale e come dovremmo trattarli e pensarli come individui.

Per il bene degli animali, spero che in futuro la nostra visione sarà temperata da una conoscenza più approfondita di che cosa l’animale possa immaginare di noi, cosa che potrebbe riservarci delle sorprese. La ricerca procede, ma tuttavia finora non ci sono indicazioni che i cani abbiano una qualche idea riguardo a noi. Ma sono perfettamente in grado di capire che noi abbiamo un’idea di loro.

Interpretano il nostro comportamento in maniera molto precisa; ciò che i ricercatori non sono ancora riusciti ad afferrare è il pattern di regole che usano per farlo.

Non sembra comunque che essi capiscano cosa pensiamo: si tratterebbe di essere in grado di analizzare cosa stiamo facendo e di comparare l’analisi con una banca dati che raccoglie tutti gli eventi passati – tutto questo nel giro di pochi microsecondi – e reagire con altrettanta prontezza. La qualità delle loro reazioni ci convince che i cani sappiano cosa stiamo pensando, quando in realtà non è così.

Io credo che condividere la propria vita con gli altri animali sia essenziale, ma, da quando ho iniziato a fare ricerca fino a oggi, non sono ancora riuscito a definirne il perché. È qualcosa che ho sempre sentito, così come tante altre persone, è la sensazione che siamo in qualche modo “meno” senza questo tipo di relazione.

Non faccio distinzione tra animali domestici e animali selvatici, e in questo senso la ricerca mi dà ragione. La preferenza sta solo nel fatto che gli animali domestici e da compagnia sono più accessibili. Il contatto con gli animali selvatici, si tratti di porre casette per gli uccelli o di nutrire un riccio che è entrato in giardino, rientra comunque nella relazione con un altro animale.

Tenere in casa un animale ci insegna cosa sono gli animali in un modo che guardare un video di un cucciolo o un gattino su YouTube non potrà mai fare, specialmente quando si tratta di bambini. Ci insegna che cosa sono gli animali e cosa sia la realtà della biologia. Ci sono tante di quelle cose nella nostra vita che sono state limitate a esperienza con uno schermo. Gli animali sono un antidoto salvifico a tutto questo.

Fonte: nationalgeographic.com

Immagine di copertina: Hank, foto © Joel Sartore, National Geographic Creative

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