Dalla simpatia all’empatia
Di Roberto Marchesini
Quante volte osservando un documentario ci si è imbattuti in una scena di predazione: un ghepardo che insegue una gazzella. In primo piano un erbivoro, intento a brucare in santa pace, immagine dell’innocenza e della bontà, ma nascosto nel fondo dell’erba, spunta una figura sinistra, il predatore a tendere l’agguato che fa presagire il peggio. E tutte le volte abbiamo provato compassione per la preda, sperando che potesse sfuggire al suo carnefice. La morte e la sofferenza della preda è conclamata e non ha bisogno di alcuna chiosa esplicativa: sta nella comunicazione corporea della paura, nelle vocalizzazioni strazianti come a chiedere aiuto ai compagni o pietà da parte del suo predatore, in una regressione infantile che porta in risonanza il pianto di un bambino, il nostro pianto e le nostre paure di piccoli indifesi. Così, assistiamo a quel breve passaggio temporale tra la sorpresa e l’essere ghermito che si svolge in un baleno, nell’istantaneità della predazione, ma che tuttavia si amplifica nello iato immenso che divide la vita, tutto quello che c’è stato prima, dalla morte temporalmente definitiva. Prima c’è un corpo che agisce, che si proietta in un futuro indeterministico, un corpo protagonista del suo qui e ora, poi c’è un ammasso di carne che mantiene solo le fattezze, seppur scomposte, dell’animale, un corpo abbandonato alle leggi gravitazionali che lo fanno cadere verso il basso e a quelle termodinamiche che iniziano a lavorare in senso entropico, proprio come se qualcosa, l’anima, fosse fuggita da qualche altra parte.
La predazione
La predazione ci mostra, come sostiene Jacques Derrida nel saggio The Animal that Therefore I Am (2008), l’esposizione del vivente, la sua vulnerabilità, l’equilibrio instabile che tiene tra due domini quel corpo, i cui confini si affacciano su un interstizio carico di sofferenza. Tra la vita e la morte sta l’impotenza dell’essere esposti alla sofferenza, ultimo vagito della vita, della fragilità della vita, della sua instabilità. La predazione interrompe un miracolo della fisica, scompone ciò che non può essere diviso senza perderne irrimediabilmente le qualità essenziali. Gli organi senza vita testimoniano ancora la loro organizzazione intimamente declinata alla funzione, in una perfezione architettonica che meraviglia al punto da farci apparire l’atto predatorio quale spreco o addirittura empietà, come se a essere distrutta fosse un’opera d’arte. I miei ricordi di veterinario tirocinante al macello di Bologna sono ancora vividi nella trepidazione che provavo di fronte al breve spazio che separava il tunnel di processione dalla catena di smontaggio, interstizio minimo tra la grandezza della vita e la nullità della morte, e nel maneggiare quegli organi ancora caldi di vita e palpitanti inutilmente e nell’osservare la loro perfezione a perdere. La predazione è un topos di ogni documentario, il piatto forte capace di attirare l’attenzione anche al più disattento, in un voyerismo che testimonia il nostro bisogno speculativo: guardare nel profondo tunnel della morte per capire qualcosa di più delle nostre paure. La simpatia che ci lega alla preda è un sentimento cui non ci può sottrarre.
La lotta per la vita
Talvolta la predazione è agghiacciante, com’è il caso della mantide religiosa che, afferrato il corpo della vittima, la divora lentamente con un ondeggiamento del capo trigono che la fa assomigliare a una ricamatrice, se non fosse che sul tessuto somatico della preda a ogni passaggio viene sottratta un’orbita di carne. Anche i costumi delle vespe solitarie ci appaiono terrificanti nel loro anestetizzare la motricità di un bruco e inseminare il suo corpo di uova da cui sgusceranno larve sarcofaghe che lo svuoteranno dall’interno. L’uccisione dei neonati, poi, ci trasmette un senso di repulsione ancora più consistente: per esempio la strage delle giovani tartarughine che tentano di raggiungere il mare a opera dei gabbiani o lo strappare un cucciolo dal genitore per divorarlo, come succede di frequente nella quotidianità della savana. La predazione ci appare ancora più fastidiosa se il predatore sembra prendersi beffa o giocare con la preda, come fa il gatto con il topo o l’orca con la foca. Se la predazione ci pare un atto crudele e comprensibile, il giocare con la preda viene interpretato da noi come un atto sadico, di inutile violenza o peggio di celebrazione della violenza. Dimentichiamo che la predazione è una lotta per la vita, che non può darsi senza una spinta motivazionale altissima, una scarica di neuromodulatori che devono modificare lo stato emozionale del soggetto per permettergli di superare la paura che qualunque scontro evoca. Il predatore ha paura, la sua eccitazione vibra ancora nel periodo successivo all’attimo fatale.
Inoltre misuriamo la violenza in termini di efficienza ed efficacia dell’atto predatorio, per cui proviamo un turbamento inferiore nell’osservare la predazione chirurgica di un leopardo piuttosto che quella prolungata di un gruppo di licaoni, la facilità di uccisione con cui un grosso calabrone decapita una piccola ape piuttosto che i prolungati tentativi di un leone su un bufalo cafro. Siamo più sensibili verso gli atti predatori che provocano squarci nel corpo e smembramenti piuttosto che verso i soffocamenti anche se prolungati. Con questo voglio dire che esistono dei gradienti di simpatia anche nei conversi della preda e che non possiamo ergerci a valutatori oggettivi del livello di violenza che sta all’interno di un processo predatorio. In questo dimentichiamo le anestesie endorfiniche che si attuano nello sforzo e nella sofferenza, palliazioni indispensabili per abbassare il peso della disabilità algica e mantenere alta la capacità di mettere in atto un estremo ultimo sforzo verso la salvezza. Rabbrividiamo perché simpateticamente ci immedesimiamo, come se la nostra filogenesi squadernasse immagini di terrori a-priori che ancora popolano i nostri incubi.
Analisi del confronto
Ma cerchiamo per un attimo di mettere il fermo immagine sulla scena, nell’istante che precede l’interstizio carico di sofferenza che separa i due domini del corpo, e cerchiamo di valutare le ragioni di quei due corpi e la violenza che comunque li attende. Il loro esser-vivi implica un’apertura verso il mondo che non può essere interpretata in modo unidirezionale: sia il ghepardo che la gazzella devono nutrirsi per vivere e il loro stile di vita non è qualcosa che hanno potuto scegliere. Più che chiusi dentro una monade, entrambi abitano le zone marginali di storie filogenetiche dialettiche e proprio nella predazione confrontano-realizzano, cioè profilano biologicamente i propri domini. Sono interfacciati e comunque legati l’uno all’altro, molto prima della loro emergenza come entità individuali: la velocità del ghepardo è la stessa della gazzella e viceversa, per cui possiamo dire che la velocità nel ghepardo è stata creata dalla gazzella così come l’inverso. La predazione ha dato forma a entrambi e in questo ha creato una condizione di sostanziale connessione tra i due dialoganti che ha molte ripercussioni. Da una parte c’è la parità del confronto, che non può essere paragonata a quella di un cacciatore che con il fucile abbatta un fagiano, dall’altra c’è la reciproca esigenza, perché senza predazione entrambe le specie non potrebbero mangiare
Ciò è fin troppo evidente per il ghepardo e non c’è bisogno di spiegazione, ma anche la vita della gazzella è legata alla predazione, perché se il numero degli erbivori aumentasse a dismisura la loro stessa esistenza sarebbe messa in pericolo. Ma torniamo alla parità del confronto esito del fatto che sono state le gazzelle a svolgere la pressione selettiva sui ghepardi e viceversa. Da questo concludiamo che, non conoscendo ancora l’esito del confronto – la scena è ghiacciata sul fermo immagine – l’interstizio di sofferenza non ha ancora una direzionalità di flusso: può andare verso la gazzella che soffrirà e morirà perché raggiunta dal ghepardo, come per contro può prendere decisamente la direzione del ghepardo che non raggiungendola morirà di fame. Se gazzella e ghepardo fanno parte della stessa dialettica filogenetica, cioè dello stesso processo che li ha conformati, possiamo dire che anche la preda è responsabile (ovviamente non in senso morale) della necessità inderogabile di predazione del ghepardo. Il ghepardo cioè non può scegliere. Nel momento in cui la gazzella eviterà di farsi raggiungere, non solo si salverà la vita ma allo stesso tempo compirà sul ghepardo un atto di violenza, condannandolo a morire di fame. La sofferenza della gazzella è un atto pubblico, quella del ghepardo un atto privato, ma entrambi sono interrelati dalla vita e dalla morte. Ma la nostra percezione simpatetica sarà solidale con la gazzella, indifferente e ostile verso il ghepardo, perché la sua sofferenza sarà nascosta.
Quando un atto è considerato violento?
Ora, se tutto questo è vero, comprendiamo come l’attribuire il termine violenza agli atti aggressivi o predatori, sia antropocentrico e arbitrario. Nessuno considererebbe violento un essere umano che usasse la forza per difendere la propria incolumità messa in serio pericolo o per togliere il proprio figlio da un rischio mortale. L’atto predatorio e la risposta aggressiva fanno parte di quella dialettica filogenetica che non ha nulla a che vedere con la scelta violenta, giacché nella predazione di un ghepardo ci troviamo di fronte a un atto necessitato, né più né meno che l’orbitazione del satellite lunare intorno al nostro pianeta. Il ghepardo predando difende la propria incolumità o difende quella dei suoi figli, non compie alcun tipo di violenza. Il confronto predatorio realizza il patto filogenetico non lo viola, mantiene e costruisce la parità tra gli sfidanti: nella velocità della corsa come nella capacità di sostenere lo sforzo. Non riscontriamo alcuna violazione di quell’ecocentrismo che assicura la vita alle gazzelle proprio nel temperarne una crescita popolazionale che provocherebbe un altro tipo di sofferenza: il morir di fame dovuto all’aver consumato tutte le risorse edibili. A questo punto, tuttavia, possiamo individuare una forma di antropocentrismo etico legato all’immedesimazione o alla simpatia che dà luogo a due forme di distorsione: i) il prendere posizione a favore di chi subisce l’aggressione predatoria, negligendo chi subisce sofferenza per il non potersi nutrire; ii) la tendenza a simpatizzare verso chi subisce un atto compromissorio in modo esplicito, piuttosto che verso chi lo subisce o in forma nascosta o attraverso espressioni di compromissioni in forme meno esplicite.
La differenza tra etica della simpatia ed etica dell’empatia
In questo senso, è facile prendere posizione nei confronti di chi maltratta un animale attraverso pratiche vessatorie, mentre è più difficile riconoscere degli atti che ignorano le esigenze specie specifiche, soprattutto se tali interessi non fanno parte dei bisogni dell’essere umano. Per questo la cultura contemporanea è molto sensibile nei confronti dei maltrattamenti fisici operati su un animale, ma ignora tutte quelle forme di maltrattamento che nascono dall’impedimento dell’espressione specie specifica. In altre parole, diamo valore morale a quelle situazioni in cui ci riconosciamo, ovvero che sollecitano le nostre corde simpatetiche, ma abbiamo un atteggiamento negligente nei confronti di quelle esigenze in cui non ci riconosciamo. Da qui un’evidente differenza tra un’etica della simpatia e un’etica dell’empatia: nel primo caso la sollecitazione morale deriva dal nostro riconoscerci nell’alterità, nel secondo caso nel riconoscere l’alterità. Questa tendenza porta con sé un’ulteriore distorsione: la prevalenza della moralità ristretta, vale a dire l’astenersi dal compiere una certa azione, rispetto alla moralità allargata, l’essere intercettato nell’agire.
Nella predazione del ghepardo non c’è alcuna forma di violenza e quell’azione nel suo svolgimento è irrilevante da un punto di vista etico. A mio parere la violenza emerge nel momento in cui un atto non fa parte degli eventi necessitati o conformati dalla dialettica filogenetica e quindi diventa arbitrario o deliberato, un atto di cui si potrebbe fare a meno, pertanto non di autoconservazione ma di scelta. Nel predare il ghepardo non viola il patto filogenetico e il suo atto è palesemente autoconservativo e necessitato, non prevede alcuna possibilità di scelta e si svolge su una doppia possibilità di flusso: ogni tanto i ghepardi fanno soffrire le gazzelle e molto più spesso le gazzelle fanno soffrire i ghepardi. Questo perché essendo reciprocamente conformati sotto il profilo filogenetico, tra il ghepardo e la gazzella c’è un rapporto di parità di confronto. È proprio quella parità interattiva che crea le basi per lo scambio necessitato, perché oltrepassa la vita individuale dei soggetti e diventa espressione filogenetica. La dialettica tra le specie non-umane, qualunque essa sia, è irrilevante da un punto di vista morale, perché il ghepardo non può scegliere di modificare il proprio stile di vita. Tale distinzione potrebbe introdurre un motivo antropocentrico, perché inserisce un valore morale all’azione dell’uomo mentre la nega alle alterità eterospecifiche, per cui dobbiamo analizzare molto bene questa accusa nient’affatto irrilevante.
Potrei affermare che il motivo è dato dal fatto che l’essere umano non si è evoluto come predatore e potrei fornire numerose prove al riguardo, ma questo argomento sarebbe irrilevante sotto il profilo morale, perché pretenderei di dedurre un orientamento prescrittivo da una valutazione descrittiva, cadendo nella fallacia naturalistica. Potrei, altresì, chiamare in causa il principio responsabilità di Hans Jonas, affermando che nel momento in cui l’essere umano ha a disposizioni strumenti così potenti, come un fucile da caccia, non solo rompe i termini del confronto e non può paragonarsi al ghepardo, ma assume una responsabilità operativa. Questo principio è stato riportato anche da Konrad Lorenz nel saggio Civilized Man’s Eight Deadly Sins (1974) sottolineando la differenza tra il possedere zanne e artigli ed essere dotati di missili intercontinentali. Certamente si tratta di una considerazione più convincente, perché evita la fallacia naturalistica e pone la rilevanza morale come condizione problematica dell’allargamento operativo. Ma anche questo aspetto non mi convince del tutto, perché comunque la distinzione non viene completamente superata. A dir il vero, non penso che si tratti di una differenza tra l’essere umano e le altre specie, bensì un problema di condizione. Nel momento in cui una popolazione vive di caccia e di raccolta, cioè è completamente inserita all’interno di un rapporto necessitato con il proprio ambiente, non trovo una rilevante differenza tra l’uomo che uccide con l’arco e le frecce e un ghepardo che utilizza le zanne e gli artigli. Ma quando parliamo degli esseri umani che vivono nelle odierne società di produzione e che hanno la possibilità di scegliere mille altri modi per nutrirsi, in questo caso c’è una valenza morale, perché in questa condizione c’è ampia possibilità di scelta.