Un filo diretto con l'etologia cognitiva e relazionale

Filosofo, etologo e zooantropologo.
Da oltre vent’anni conduce una ricerca interdisciplinare volta a ridefinire il ruolo degli animali non umani nella nostra società.
Direttore del Centro Studi Filosofia Postumanista e della Scuola di interazione uomo-animale (Siua), è autore di oltre un centinaio di pubblicazioni nel campo della bioetica animale, delle scienze cognitive e della filosofia post-human.
È inoltre direttore della rivista “Animal Studies”, la Rivista Italiana di Zooantropologia (Apeiron).

La favola ridicola dell’Antropocene

Planet Earth in Space surrounded by Stars showing North America. This image elements furnished by NASA.

di Roberto Marchesini

Premessa

La parola Antropocene si è andata affermando in questi ultimi anni da quando il biologo Eugene Stormer già negli anni ‘80 e il chimico Paul Crutzen, durante un convegno del 2000, l’adottarono per indicare un’era geologica caratterizzata dal massivo impatto dell’essere umano sull’intero pianeta. La piena formalizzazione del termine può essere attribuita all’articolo di Crutzen su Nature, Geology of mankind (2002), e al libro Benvenuti nell’Antropocene. Indubbiamente il termine mette in rilievo l’impatto che l’essere umano ha avuto soprattutto negli ultimi duecento anni sul Pianeta, tale da caratterizzarne la conformazione e le dinamiche, soprattutto a carico della biosfera che a partire dalla seconda metà del XX secolo ha conosciuto una drastica riduzione in termini di biodiversità, a tal punto da essere definita una Sesta estinzione di massa. Porre in risalto queste criticità, vale a dire la responsabilità umana nel riscaldamento globale e nella compromissione degli equilibri nella biosfera, può costituire in effetti un fattore positivo. Per tale motivo alcuni autori, come Timothy Morton nel saggio Ecologia Oscura (2022), ritengono che il termine Antropocene sia quanto di più anti-antropocentrico ci possa essere. Al contrario, ritengo che assegnare un’era geologica all’essere umano sia l’ultima frontiera dell’antropocentrismo ed esalti ancor di più la percezione che il Pianeta sia in fondo un’entità antropo-formata e quindi controllata dall’essere umano quando, al contrario, non v’è mai stata epoca storica così incerta per la sopravvivenza della nostra specie. 

L’antropocentrismo è il fulcro di ogni problema dell’essere umano e, se diverse sono le fonti che lo alimentano – come: i) la prospettiva antropocentrata, una sorta di egocentrismo di specie; ii) l’ideologia antropocentrica, tipica espressione dell’umanismo – è indubbio che anche questa titolazione sia in grado di titillare l’ambizione umana. La parola Antropocene, infatti, è in grado di rafforzare: iii) il suprematismo antropocentrico, ossia l’idea di un potere-superiorità dell’essere umano sulla biosfera, quando in realtà è l’essere umano sempre più esposto alle fluttuazioni della biosfera; iv) l’estetica antropoplastica ossia l’idea che la conversione delle entità naturali con entità artificiali sia realizzabile fino all’estremo e comunque rappresenti un miglioramento; v) l’orgoglio demiurgico, l’illusione che l’essere umano possa generare un mondo alternativo rispetto alla biosfera. La mia impressione, perciò, è che al contrario di quello che afferma Morton, di cui peraltro condivido le altre affermazioni circa la responsabilità umana di quello che sta accadendo, è che la titolazione geologica non faccia altro che alimentare i peggiori vizi dell’antropocentrismo, anche agendo su aspetti che hanno poco a che fare con la razionalità. In fondo le persone tendono a salvaguardare – nel senso di proteggere, elevare, rafforzare – un Sé che si estende per cerchi concentrici ai familiari, alle divere appartenenze, a tutto ciò su cui ci si può proiettare – un Noi che si addensa e consolida grazie a un’alterità controlaterale. Nulla come il non-umano è in grado di svolgere meglio questa controlateralità, per cui indebolire il significato della biosfera significa inevitabilmente rafforzare l’antropocentrismo, non importa se con senso di colpa.   

Altri autori non sono d’accordo sul termine Antropocene perché attribuirebbe una colpa generica all’essere umano quando, al contrario, il disastro ecologico in atto sarebbe più attribuibile a un sistema sociale, economico e culturale che si è andato affermando a partire da un certo momento. Per esempio all’interno della corrente Ecological Marxism si è andato affermando il termine sostitutivo di Capitalocene, proposto nel 2009 dall’ecologista svedese Andreas Malm e sviluppato da Jason Moore nel saggio Antropocene o Capitalocene? (2017) per sottolineare come non fosse corretto attribuire a una generica umanità la responsabilità del disastro ecologico, ma a un preciso sistema economico e sociale. In modo simile Donna Haraway parla di un Plantationocene, per sottolineare l’importanza del modello piantagione per comprendere non solo la distruzione del paesaggio, convertito per semplificazione, ma anche lo sfruttamento dell’essere umano, un modello che dall’agronomia si diffonde nella fabbrica, nella zootecnia e in generale nel modo in cui si concepisce il lavoro salariato. In realtà possiamo notare dei punti di convergenza tra queste tre definizioni, per esempio nell’idea di considerare l’entità naturali come risorse a disposizione dell’essere umano che ne pretende l’usufrutto ad libitum. Il secondo aspetto è che comunque si accetta l’idea ellittica di un’era geologica nuova, innescata da forze che comunque stanno dentro alla nostra specie, ipotizzando una potestà geomorfica dell’essere umano. 

Dovendo seguire questa strada – che, tuttavia, contesto e spiegherò il perché – forse sarebbe più corretto assegnare questo cambiamento alla rivoluzione del Neolitico, allorché alcune popolazioni cominciarono a modificare l’ambiente attraverso l’agricoltura e ad allevare il bestiame, creando una nuova situazione biocenotica che, poi, si è evoluta in molte forme differenti grazie alla disponibilità di macchine e di fonti energetiche e in relazione ai cambiamenti da queste prodotti. Da quel momento nell’irregimentare fiumi e costruire canali, nel bonificare e arare il terreno, nella costruzione di spazi ecumenici e poi di porti, di città, di confini e via dicendo l’essere umano ha iniziato quella conversione dell’ambiente che oggi ci appare come espressione dell’umano. Certo, all’inizio l’impatto era poco rilevante, nulla più di qualcosa che assomigliava alla costruzione di nicchia vigente nelle altre specie, così come l’allevamento e l’agricoltura potevano ricordare una simbiosi. Ma, poi, soprattutto a partire dalle rivoluzioni industriali, questa trasformazione assume una rilevanza tale da accelerare i cambiamenti apportati dall’uomo sulla biosfera. Possiamo, allora, parlare di un gradiente neolitico, per indicare il livello di cambiamento apportato al pianeta in una certa società, in una scala che può partire dal gradiente base preneolitico, per esempio la semplice raccolta alimentare o l’utilizzo di caverne come ripari, ancora presente in alcune comunità.  Questo significherebbe che a seconda del gradiente neolitico di ogni società ci troveremmo di fronte a forme differenti di responsabilità umana nei confronti del disastro ecologico.

Ma se evito di parlare di un Neoliticocene, da cui sorgerebbero quei germi di degradazione del pianeta, di erosione della biosfera, di sottomissione degli animali, di sfruttamento dell’essere umano e di tutte quelle sciagure già in nuce e poi conclamate nel capitalismo, è perché non credo che siamo di fronte a un’era geologica nuova. Certo, ho di fronte agli occhi il disastro ecologico in atto e l’impatto delle economie umane sul pianeta, ma come non mi verrebbe mai di assegnare un Asteroidecene all’impatto del meteorite sul placido mondo del Mesozoico, né di un Vulcanocene per parlare della crisi che segnò la fine dell’era Paleozoica, così non lo farò ora. Il motivo è presto detto. L’essere umano non sta inaugurando una nuova era ma sta semplicemente mettendo a rischio l’era geologica Cenozoica che ha sancito il successo di alcuni animali come i coleotteri, gli uccelli e i mammiferi. Non siamo diversi dall’asteroide che 65 milioni di anni fa cadde sull’universo dei dinosauri o delle trappole siberiane che circa 250 milioni di anni fa, portarono all’estinzione dei trilobiti e dei due terzi delle famiglie degli anfibi terrestri e dei rettili presenti. L’impatto dell’estinzione del Permiano-Triassico fu tremendo con l’estinzione dell’80% delle specie marine e più del 70% dei vertebrati terrestri, causando una così grave perdita di biodiversità che occorsero più di 10 milioni di anni – confrontiamo questo dato con quello della comparsa delle Homininae – per ripristinare una nuova biosfera. 

Intitolare un’era geologica all’’impatto dell’essere umano è un’altra delle assurdità degli umanisti, che leggono il mondo attraverso lenti fortemente antropocentranti. Siamo ancora immersi nell’era Terziaria, all’interno di quella biosfera che pur con continue transizioni, evoluzioni, fluttuazioni ha sancito l’avvento del mondo cenozoico. Siamo, questo è vero, la nuova causa di un’estinzione di massa, un processo già in atto che molto probabilmente segnerà la fine di questa era geologica, dilavando dalla faccia del pianeta anche questo strano mammifero che pensa di non essere un animale e di non essere sottoposto al metabolismo della biosfera. Certo, c’è una bella differenza tra l’intitolarsi un’era geologica che pensiamo si stia aprendo di fronte a noi, che assistiamo come a un vernissage, nelle vesti intellettuali di un pentito che tuttavia non si converte – quel fascino della contraddizione che piace tanto a Morton – piuttosto che essere non più che un accidente, uno dei tanti capitati sulla Terra, anche se noi ne contiamo sei, non diversi da un asteroide o da un eccesso di attività vulcanica. Ma l’antropocentrismo è tutto qui: trasformare in speciale ciò che è semplicemente specifico, un’inguaribile vanagloria.

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La senzienza come fondamento della soggettività

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