Un filo diretto con l'etologia cognitiva e relazionale

Filosofo, etologo e zooantropologo.
Da oltre vent’anni conduce una ricerca interdisciplinare volta a ridefinire il ruolo degli animali non umani nella nostra società.
Direttore del Centro Studi Filosofia Postumanista e della Scuola di interazione uomo-animale (Siua), è autore di oltre un centinaio di pubblicazioni nel campo della bioetica animale, delle scienze cognitive e della filosofia post-human.
È inoltre direttore della rivista “Animal Studies”, la Rivista Italiana di Zooantropologia (Apeiron).

La senzienza come fondamento della soggettività

di Roberto Marchesini

La senzienza rappresenta la facoltà di provare-qualcosa e quindi di avere un orientamento e delle preferenze rispetto alle condizioni che un animale si trova a vivere in un certo momento. La senzienza è uno dei caratteri più importanti della soggettività. La condizione somatica, l’essere un corpo caratterizzato da alcuni bisogni fisiologici ed espressivi, rende l’individuo un’entità orientata sul principio d’interesse. Questo significa che l’animale: i) è portatore d’interessi propri – da difendere, valutare e raggiungere – e quindi ha un movente interno nel comportamento; ii) va nel mondo in modo interessato, ossia non si trova in una condizione di neutralità o disinteresse, per cui non è indirizzato solo dai sensi ma anche dal suo stato interno. L’animale manifesta la sua soggettività attraverso una condizione Sé-riferita che lo differenzia dagli oggetti e dalle macchine. Non solo la capacità di provare sofferenza caratterizza la senzienza, ma anche le condizioni fisiologiche, come la fame o la sete. I bisogni, infatti, si traducono nell’animale in uno stato psicologico, come provare fame e sete, cioè in una sensazione che influenza il vissuto dell’individuo ed è collegata al piacere e alla sofferenza. Affermare che un animale è un’entità senziente non significa solo che può provare sofferenza, ma che il suo corpo è sempre diretto verso la ricerca del piacere. Inoltre la senzienza contempla altre due condizioni importanti: i) la dimensione emozionale, quella legata ai sentimenti; ii) la dimensione motivazionale, quella riconducibile ai desideri.

  1. Essere un corpo: il bisogno come stato affettivo

Il vissuto psicologico di un animale non può essere interpretato se non attraverso la dimensione somatico-relazionale della sua esistenza. Essere un animale significa prima di tutto essere-un-corpo in relazione con il mondo esterno e tradurre questa relazione in stati psicologici, che possiamo definire come un provare-qualcosa. Si tratta di una condizione che ha a che fare con quella dimensione esistenziale che viene comunemente definita come affettività e che abbraccia diverse espressioni o stati dell’individuo, descritti in vario modo, come: appetenze, pulsioni, sensazioni, sentimenti, passioni, voglie, desideri, drive, emozioni, motivazioni. Mentre nell’ambito cognitivo – nell’essere umano diremmo razionale – si ha l’impressione di avere pienamente in mano le proprie dotazioni espressive, così non è per l’affettività che nella sua radice etimologica di derivazione latina con il termine affectus indica un essere influenzato, impressionato, portato, colpito. Per questo molti filosofi, pur riconoscendo l’affettività come una componente umana, hanno sottolineato l’importanza della moderazione, collegandola all’animalità e all’istintività.

Nella rivoluzione cognitivista si è cercato di tradurre la condizione affettiva in una delle tante forme della computazione, tuttavia, dobbiamo riconoscere l’insufficienza di questo modello che prospetta in modo evidente una forzatura. L’affettività si lega a conoscenze e a processi elaborativi, ma è irriducibile a questi, essendo l’espressione di marcatori somatici o stati del corpo. In altre parole, l’affezione del corpo – nel senso di essere affetti, cioè colpiti e portati, da quello che si prova – non è riducibile a un parametro quantitativo. La fame, la gioia, la sensazione del verde, la passione amorosa non hanno rapporti quantitativi tra loro, perché la loro configurazione è data da un qualis affettivo. Possiamo solo dire che ciascuna di queste affezioni può manifestarsi in noi in modo più o meno intenso, ma si tratta di esperienze affettive che hanno una loro e disgiunta dimensione di vissuto. Le riduzioni fisicalista o logico-linguistico delle affezioni non tengono in considerazione la teoria evoluzionistica degli a-priori psicologici: le qualità affettive di un corpo non sono convenzioni, bensì il frutto di un processo adattativo di relazione con il mondo.

Essere un corpo significa essere un’entità che ha delle preferenze e degli orientamenti, perché: i) detentrice di interessi propri, verso cui ricondurre tutte le variabili presenti e le fluttuazioni dei gradienti che si dovessero presentare; ii) interessata, nello stesso tempo, a estrarre in modo elettivo le variabili del mondo. Un’entità affettiva non è mossa dal mondo, ma si muove nel mondo, attraverso indirizzi di rotta e preferenze che si traducono in scelte e decisioni. Essere un corpo significa essere un’entità che non si limita a reagire – come nel caso del riflesso patellare – ma che prova-qualcosa attraverso la sollecitazione dei recettori interni. Questi recettori scaricano sia su siti di reazione neurovegetativa, che danno risposte fisiologiche immediate, sia su precise aree del sistema nervoso centrale, che producono condizioni psicologiche. Come sappiamo, i diversi bisogni non sono altro che l’espressione della necessità del corpo di mantenersi all’interno di valori ottimali, per cui i recettori rilevano alcune variabili di riferimento, come: il volume ematico, la temperatura, la glicemia, l’alcalinità, la salinità. Questi processi di mantenimento dell’omeostasi sono assolti da variazioni del metabolismo interno, per esempio attraverso cascate ormonali, ma altrettanto spesso richiedono azioni specifiche da parte dell’animale. La prima risposta può essere, pertanto, metabolica, ma poi l’individuo deve agire, per esempio procacciarsi del cibo o bagnarsi per abbassare la temperatura interna. Lo stato psicologico è funzionale al comportamento.

Il bisogno tradotto in uno stato psicologico dell’individuo, che prova-qualcosa – come fame, sete, caldo – produce un indirizzo capace di definire urgenze, priorità e preferenze, vale a dire orientamenti e azioni nel mondo caratterizzate da soggettività. Tali attività non possono essere ricondotte a semplici riflessi, perché implicano comportamenti complessi, come cercare le diverse fonti del cibo, dirigersi verso una zona di foraggiamento o impegnarsi in una predazione. Tanto la sete quanto la fame sono azione di ripristino del gradiente ottimale, che impongono all’individuo di costruire le migliori strategie per assumere le risorse necessarie dall’ambiente. Si tratta di attività che il più delle volte richiedono funzioni mnemoniche, come ricordarsi dove si trova una fonte d’acqua, o capacità solutive ad hoc. Di base possiamo dire che sempre richiedono un’attivazione sistemica del soggetto, che deve poter accedere a tutte le dotazioni esperienziali possedute, sollecitando il suo coinvolgimento globale. Aver fame non può essere ridotta a una mera espressione fisiologica e non sollecita solo un processo di consumazione, perché si tratta di un provare-qualcosa che si ripercuote su tutte le dimensioni psicologiche del soggetto. Provare fame vuol dire attivare: funzioni elaborative come distinguere o correlare, competenze mnestiche sotto forma di ricordi e di conoscenze, capacità solutive per testaggio o per insight, nonché emozioni e motivazioni, multiformi stati di piacere o di sofferenza, condizioni di disagio e tentativi di compensazione.

Il corpo è un’entità senziente perché si è evoluto per mantenere una certa organizzazione interna, sia di ordine strutturale sia di efficienza-efficacia funzionale e solo gli individui con maggiore capacità di provare-qualcosa – nel senso di attivare tutte le dotazioni psicologiche emozionali, motivazionali e cognitive, non limitandosi a reagire – hanno ricevuto maggiori chances riproduttive. I valori dello stato del corpo sono rilevati da recettori interni – come osmocettori, chemiocettori, termocettori – posti in punti strategici di monitoraggio, come i reni, lo stomaco, il cuore. Quando i valori acquisiti in tali punti di rilevamento si discostano dal gradiente ottimale, i recettori inviano stimolazioni ad alcune aree del sistema nervoso centrale attivandole. L’accensione di queste aree del cervello – come l’area grigia peri-acqueduttale (PAG) o la sostanza reticolare – scatena un network di ulteriori processi di attivazione che coinvolgono molte altre aree del cervello – nei mammiferi a livello corticale e sottocorticale, anche attraverso l’intermediazione dei sistemi endocrino e immunitario – definendo una particolare condizione psicologica a carico del soggetto. 

Possiamo dire, pertanto, che la fame sia indubbiamente una condizione fisiologica, vale a dire uno stato somatico ben preciso e riferibile per esempio a un calo degli zuccheri, cui il corpo reagisce attraverso l’attivazione di cascate endocrine tese a ripristinare i giusti valori ematici. Tuttavia questo scostamento non si limita ad attivare il meccanismo metabolico della liberazione di glucosio – la glicogenolisi, svolta dal glucagone che agisce a livello epatico e dall’adrenalina a livello muscolare – ma nello stesso tempo, produce una condizione psicologica del soggetto. Stiamo parlando, cioè, della sensazione di fame, che richiama altre aree del cervello collegate al comportamento di foraggiamento, in sinergia con tutte quelle componenti psicologiche utili a raggiungere lo scopo di recupero delle risorse alimentari e parallelamente in relazione a quanto gli organi sensoriali stanno acquisendo dall’ambiente. L’individuo prova il senso di fame come condizione psicologica emergenziale che dipende dall’interazione e dalla convergenza di più elementi influenti. Nell’aver fame l’animale: i) prova qualcosa che può essere spiacevole, ma non necessariamente, quando più riferita al languore e all’aspettativa; ii) può essere immerso al qui e ora oppure allontanato dalla condizione specifica, dando avvio a un’azione di ricerca o di strategia esecutiva; iii) può essere portato a seguire il gruppo e a svolgere le azioni consolidate come, peraltro, a sperimentare nuove tattiche. Insomma, il provare la fame significa immergersi in un certo vissuto non sovrapponibile al solo aspetto fisiologico collegato ai valori glicemici o ai recettori gastrici. 

Le condizioni psicologiche dell’animale emergono da tutto il corpo e non ha senso pensare alla mente come a un’entità disgiunta che semplicemente riceva degli input dalle altre aree somatiche, perché il funzionamento stesso della neurotrasmissione è regolato in modo complesso da un insieme di neuromodulatori prodotti, per esempio, dalle ghiandole endocrine e dal sistema immunitario. I bisogni fisiologici legati alla condizione di essere un corpo rappresentano l’esempio più lampante di questa emergenza somatica della psiche. I bisogni, infatti, non vanno considerati nel solo meccanismo metabolico di ripristino, per quanto fondamentale esso sia. L’individuo prova-qualcosa, è affetto da una condizione di stato psicologico che si ripercuote sull’intera mente. Si pensi, per esempio, a come le fluttuazioni di picco glicemico influenzino disposizioni come la rabbia e l’aggressività, oppure come la pressione arteriosa abbia ricadute sulle funzioni cognitive, sull’irritabilità, sull’attivazione emozionale. Oggi sappiamo che il sistema vagale non è unidirezionale, dall’encefalo agli organi viscerali, ma bidirezionale, per cui la condizione degli organi raggiunti da questo nervo cranico sono in grado d’influenzare lo stato mentale del soggetto. La digestione o la respirazione possono, cioè, tradursi in stati psicologici o influenzarne il decorso.

  1. La sensazione come stato affettivo

Un discorso analogo può essere fatto riguardo alle sollecitazioni esterocettive, come il tatto, la vista, l’udito, l’olfatto e il gusto. La percezione viene di solito descritta come la capacità di farsi un’immagine del mondo esterno attraverso gli accessi sensoriali di cui quella specie è dotata, quando in realtà anche nella percezione si manifesta il carattere elettivo, cioè soggettivo, di preferenza e orientamento. Il soggetto percepisce molto di più – e, parallelamente, molto di meno – di quello che gli organi sensoriali gli renderebbero possibile. La percezione è prima di tutto formazione di uno stato psicologico, che si sviluppa nel soggetto allorché entra in relazione con la realtà esterna, perché a seconda del tipo di contatto percettivo che si viene a realizzare si producono sequenze di sensazioni che alterano la condizione mentale dell’animale. In altre parole, percepire un certo quadro di realtà significa prima di tutto provare-qualcosa nella relazione con il mondo esterno. Le sensazioni giocano un ruolo rilevante nella sensitività animale poiché la loro funzione non si limita mai a essere quella di fornire un’immagine del mondo. La percezione è intimamente connessa con lo stato del corpo in un certo particolare momento, che stabilisce la prevalenza di un certo canale sensoriale o la scansione temporale stessa della percezione. L’attivazione adrenalinica, per esempio accelera la scansione temporale e acuisce il dettaglio visivo sul movimento.

Siamo abituati a pensare che gli organi sensoriali siano semplicemente le porte d’ingresso per realizzare un’acquisizione quanto più veritiera e oggettiva di ciò che è presente nella realtà esterna, spesso limitandosi a concepirla nella sua dimensione istantanea. In realtà le sensazioni hanno sempre una dimensione di permanenza, di latenza e di riverbero, sulla base proprio della condizione temporalmente protratta di quel provare-qualcosa che produce. La percezione, infatti, richiama ricordi, prospetta situazioni a-venire, modifica la fisiologia stessa del corpo e nello stesso tempo ne è influenzata. Questo significa che la percezione non può essere tradotta nei termini del mero monitoraggio della realtà esterna, perché l’esterocezione produce prima di tutto delle sensazioni che, come nel caso dei bisogni fisiologici, si traducono nel provare-qualcosa. La senzienza produce indubbiamente una condizione a Sé riferita, giacché parte dal principio dell’interesse da difendere, ma tale condizione non va confusa con una sorta di autonomia del soggetto affettivo. La senzienza rende il soggetto interessato a ciò che lo circonda proprio in virtù del fatto che è chiamato a difendere e raggiungere i propri interessi che trovano applicazione proprio nel mondo.

Le sensazioni che derivano dall’esperienza percettiva del soggetto non si limitano mai a essere quadri più o meno fedeli della realtà ma producono stati emozionali e inducono appetenze motivazionali. Si tratta di un’esperienza spesso legata all’attivazione dei sistemi nervosi autonomi che danno vita a modificazioni della funzionalità del corpo, per esempio del ritmo cardiaco, della pressione arteriosa, del ritmo respiratorio, della peristalsi intestinale. Un esempio è dato dalla sensazione di disgusto che viene provocata attraverso una sollecitazione della sensorialità gustativa o dall’alterazione di altri sistemi, come il riflesso emetico da assunzione di sostanze tossiche o la nausea da infezioni o alterazioni della funzionalità immunitaria. Ancora una volta è lo stato complessivo del corpo a definire la funzionalità d’accesso. Facciamo un altro esempio. Durante il parto, una riduzione dei neurotrasmettitori inibitivi a livello nasale amplifica le capacità olfattive della madre e lo sviluppo di ricordi olfattivi stabili utili per la costruzione della cosiddetta firma olfattiva dei cuccioli. 

Le sensazioni agiscono in modo consistente sullo stato di arousal del soggetto, si pensi all’aumento del livello di attivazione data nel cane dal movimento e dai toni acuti oppure alla diminuzione di arousal prodotto dal silenzio, dall’immobilità, dalla penombra. Esiste un rapporto molto stretto tra la condizione di arousal e la senzienza, in particolare con il senso del piacere: i) l’alto arousal produce una condizione d’inquietudine e irrequietezza, che si esprime attraverso comportamenti di ricerca specifica; ii) il basso arousal produce una condizione di noia, che si esprime attraverso comportamenti di ricerca diversiva. Sappiamo, inoltre, che lo stato di arousal influenza il modo di avvertire il flusso del tempo e la scansione temporale, per cui la percezione dipende dal livello di attivazione di questo sistema. D’altra parte, altre componenti mentali influenzano la percezione, come le emozioni o le motivazioni, soprattutto in relazione alle prevalenze in quel profilo caratteriale o alle conoscenze che il soggetto possiede. La percezione, infatti, non è mai un’esposizione al mondo bensì una ricerca, per cui a seconda delle conoscenze e delle disposizioni attive in un certo momento anche le sensazioni che si riceveranno saranno differenti. 

Ma la domanda principale che ci facciamo quando analizziamo il variegato mondo delle sensazioni rispetto al carattere di senzienza può essere così formulata: Cosa prova l’animale quando riceve un particolare referto sensoriale? Sappiamo che gli stimoli, per come vengono avvertiti dall’animale, si differenziano per un gran numero di variabili: i) la salienza ossia la capacità di prevalenza rispetto ad altri stimoli concorrenti; ii) la prototipicità dello stimolo, la capacità di rappresentare una categoria di stimoli; iii) l’evocazione, ossia la capacità di suscitare un’emozione o una motivazione; iv) la gestalt, vale a dire la capacità di assumere una forma indicativa di un ente; v) l’effetto priming ossia la capacità di facilitare l’elaborazione altri stimoli simili; vi) l’affordance, ossia la capacità di indurre una particolare azione; vii) l’immagine di ricerca, ossia la proprietà di uno stimolo di funzionare come una parola chiave per trovare qualcosa. Queste caratteristiche non appartengono allo stimolo in sé ma al modo in cui il soggetto interagisce con gli enti-eventi presenti nel mondo. In altre parole, qualità come l’effetto priming o l’affordance indicano prima di tutto le sensazioni che quel particolare evento percettivo provocano nel soggetto, attivando una cascata di eventi psicologici.

La sensazione del rosso nell’essere umano, solo per fare un esempio, non è solo l’accesso a una certa banda dello spettro elettromagnetico né il frutto di un’arbitraria designazione linguistica, ma una specifica dimensione del sentire. Uno stato che ha a che fare con: i) l’orientamento a-priori, perché il rosso è per l’uomo uno stimolo saliente, che risalta su altri colori; ii) la produzione di un gran numero di stati psicologici come la sollecitazione estetica, l’attivazione di arousal, l’eccitazione e l’attenzione. Lo stesso può dirsi per l’influenza di alcune molecole olfattive, come l’indolo per i cani o la felinina per i gatti. Essere un corpo significa andare oltre la mera esposizione agli stimoli presenti e accessibili. Vuol dire: i) avere sempre una relazione soggettiva – cioè elettiva, filtrata e ricostruttiva – con il mondo, traducibile in uno stato di emergenza che si produce nell’interazione; ii) essere affetti, cioè sottoposti, a un vissuto che possiamo indicare come un provare-qualcosa, una condizione che non può essere derubricata come una reazione o un riflesso fisiologico, perché la sua dimensione è sempre psicologica, anche quando sviluppata in modo inconscio. L’esperienza sensoriale non è un mero monitoraggio che informa l’animale su cosa c’è là nel mondo, ma per l’appunto si tratta di un’esperienza psicologica situata, che modifica la condizione mentale nel soggetto, come il senso del tempo, le sensazioni fisiche, le immagini evocate, i desideri.

Attraverso i sensi il mondo, filtrato dai meccanismi elettivi di acquisizione e di semipermeabilità degli organi sensoriali, si traduce in sensazioni sinestesiche che hanno effetti non solo nel coniugare il soggetto alla situazione specifica in cui si trova, ma sono in grado di attivare dei ricordi, di produrre effetti di latenza che si traducono nella successiva attività onirica. Le nuove ricerche nell’ambito della rievocazione onirica dell’esperienza mostrano che una marcatura olfattiva, per esempio l’utilizzo di un certo odore nel corso dell’esperienza, se ripetuta sul giaciglio dove l’animale riposa, è in grado di facilitare la rievocazione onirica e, di conseguenza, il consolidamento dei processi di apprendimento collegati a quella particolare esperienza. La sensazione, in questo caso l’odore cui il soggetto è sottoposto, non rimane confinato nel suo perimetro estesico, ma è in grado di evocare tutti gli altri referti e la condizione psicologica complessiva vissuta dal soggetto. Possiamo pertanto pensare che il flusso di memoria involontaria scatenata da alcune sensazioni, così magnificamente descritta da Proust, sia in realtà una caratteristica particolare della senzienza.

D’altro canto, circoscrivere le sensazioni all’ambito dell’estesia, vale a dire della percezione di cosa c’è là nel mondo, sia una limitazione, perché in ciò che un animale prova attraverso le sensazioni ha a che fare con la sollecitazione estetica, ciò che abitualmente definiamo coi termini di senso del bello e del sublime. Molti storceranno il naso nella mia idea che anche animali non-umani abbiano un senso del bello e del sublime, ma personalmente non ho difficoltà nel presupporlo perché ritengo che ogni qualità umana abbia comunque dei precursori o delle espressioni specie-specifiche negli altri animali. In fondo, si sono potute dimostrare attivazioni dei percorsi dopaminergici non solo nell’essere umano di fronte alla musica ma anche nei mammiferi e negli uccelli. La presenza di un orientamento estetico negli altri animali indica solamente il fatto che anche a livello percettivo ogni specie, ma altresì ogni individuo, abbia delle preferenze. Sappiamo, per esempio, che il canto di un canarino maschio ha effetti dopaminergici sul cervello della canarina, esattamente come succede all’essere umano. Innumerevoli sono le ricerche sull’estetica animale, che non fanno altro che dimostrare come anche la sensorialità entri a far parte della senzienza.

Abituati a pensare che l’espressione delle preferenze abbia a che fare con il pensiero complesso, con le decisioni consapevoli e con il senso del tempo, tendiamo a circoscrivere la senzienza agli aspetti fisiologici o alla capacità di provare sofferenza. In realtà, l’espressione delle preferenze è già implicita nelle caratteristiche dell’orientamento percettivo del soggetto che, laddove indirizza e privilegia alcuni aspetti del reale – perché in linea con i parametri di fitness – inevitabilmente produce sensazioni piacevoli piuttosto che spiacevoli e talvolta così coinvolgenti da potersi definire sublimi. L’esterocezione indica il fatto che abbiamo organi sensoriali che in modo selettivo ci mettono in relazione con variabili fisico-chimiche presenti nel mondo esterno, ma sappiamo che la percezione non è una mera esposizione e che l’individuo non risponde alle sollecitazioni stimolative in modo reattivo, bensì attraverso dei comportamenti di orientamento e di scelta, vale a dire di preferenza. Queste non sono altro che la manifestazione di una condizione sistemica e interna vissuta dal soggetto, vale a dire di uno stato psicologico specifico: il provare delle sensazioni.

  1. Il sistema edonico, tra piacere e sofferenza

L’affettività non è solo emergenza di stati psicologici qualitativamente definibili, i qualia affettivi, e non riducibili a un mero meccanismo computativo, ma è anche coniugazione con un sistema che definisce lo stato di piacere o di sofferenza che il soggetto sta provando in un certo momento. Spesso si afferma che gli animali sono entità senzienti – e in questo senso portatrici di interessi inerenti, da cui la riflessione bioetica riferibili ai diritti animali o ai doveri umani – in quanto possono soffrire o sono esposti alla sofferenza. Questa lettura, per quanto indubbiamente importante, considerato il modo in cui l’essere umano tratta gli altri animali, è tuttavia limitativa, perché tende a circoscrivere la senzienza alla capacità di provare dolore o comunque a limitare il dibattito sulla nocicezione, qualunque ne sia il gradiente o la tipologia. Penso sia più utile soffermarsi sulla capacità dell’animale di provare piacere, perché l’interesse dell’individuo non sta in senso negativo nella possibilità di non essere sottoposto a prassi che producano dolore, bensì nella capacità di raggiungere il piacere. Il fatto che questa condizione sia solo in parte raggiungibile nelle politiche di benessere animale e che comunque anche la vita libera presenti inevitabili compromissioni allo stato di piacere, ciò nondimeno non può farci ignorare la prevalenza concettuale del piacere, che non è solo mancanza di dolore o di sofferenza fisica e che va oltre la condizione di nocicezione. 

Ma partiamo da quest’ultima. I recettori del dolore o nocicettori sono presenti: i) a livello periferico nel derma e sono attivati da ferite, compressioni e scottature; ii) all’interno dei vasi dove rilevano infiammazioni, come flebiti, presenza di trombi o tensioni a livello cardiaco; iii) a carico dell’apparato muscolo-scheletrico rilevando fratture, contusioni e stiramenti; iv) nell’apparato gastroenterico, rispetto a eccessi di acidità, difficoltà digestiva, alterazioni della peristalsi; v) a carico viscerale in tutti i principali organi; vi) nei nervi cranici, per rilevare problemi soprattutto a carico dei denti, degli occhi e delle orecchie.  Il dolore è mediato da molecole come la sostanza P e le prostaglandine. La percezione algogena a carico dell’apparato somatico o viscerale raggiunge il sistema nervoso centrale attivando prima di tutto il talamo, che rappresenta una sorta di centrale di smistamento, per poi si diffondersi ai nuclei sottocorticali e corticali. La nocicezione, perciò, è un processo fisiologico come tanti altri e, come tale, si traduce in uno stato psicologico, coinvolgendo altre componenti mentali, come l’attivazione della paura o della rabbia, la diminuzione di alcune facoltà cognitive, l’attivazione del sistema di arousal, lo scatenarsi di reazione aggressive. 

Per molto tempo non si è tenuto conto del dolore e della sofferenza animale, dal momento che perché si potesse parlare di uno stato di sofferenza necessariamente si doveva ammettere la presenza di un soggetto-che-soffre all’interno del corpo dell’animale. Come sappiamo, Descartes era convinto che l’animale non fosse in grado di soffrire perché mancante della res cogitans, vale a dire di quel carattere riflessivo che implicava un Sé. Le espressioni di sofferenza erano per il filosofo francese equiparabili al cigolio di una macchina e non a una condizione di sofferenza. L’immagine cartesiana sembra agli occhi dei contemporanei un’assurdità quando, al contrario, aveva una sua intima coerenza. Difatti, se si ritiene che la soggettività animale sia pura apparenza, impostazione che ritroviamo nelle scuole d’inizio del XX secolo che ipotizzavano che il comportamento animale fosse frutto di automatismi, la sofferenza non può darsi. Se non c’è un soggetto, non può esserci nessuno che può soffrire. Al contrario, io ritengo, e non in modo arbitrario, che nelle altre specie la sofferenza abbia un’intensità di gran lunga superiore rispetto all’essere umano. L’ho potuto verificare nelle prassi clinico-chirurgiche in medicina veterinaria, osservando il comportamento animale anche davanti a piccoli interventi. Mentre una persona può sopportare un intervento odontoiatrico senza anestesia, ciò è impossibile per un cane. Questo mi porta ad affermare che nell’umano il dolore è meno coinvolgente perché maggiormente gestito dalle conoscenze che si possiedono. 

Nel corpo di un animale, oltre ai recettori delle compromissioni esistono recettori del piacere, come per esempio i corpuscoli di Krause, particolari terminazioni nervose che rispondono al tocco e alle vibrazioni. In alcune aree del corpo tali recettori sono particolarmente presenti, per esempio nei mammiferi li rileviamo a livello dei capezzoli, nel pene e nella clitoride e ci consentono di parlare di zone erogene. Questi recettori sono stati rilevati in tutti i mammiferi esaminati. A livello di sistema nervoso centrale la condizione di piacere ha una sua area di attivazione identificabile a livello mesolimbico: un plesso che origina nell’area tegmentale ventrale e termina nel nucleo accumbens. Si tratta di una via di neuromodulazione basata sulla dopamina, ritenuta per molto tempo la molecola della gratificazione, oggi più verosimilmente legata anche ad altri aspetti riconducibili all’aspettativa, all’interesse, al desiderio, alla dipendenza. Si è potuto accertare che nei mammiferi l’assunzione di acqua o di cibo e l’attività di accoppiamento portano alla produzione di dopamina nel nucleo accombens, generando sensazioni piacevoli. Dovremmo, pertanto, riconsiderare il nostro modo di descrivere i comportamenti animali: ponendo il piacere come prima causa di espressione e la funzione come conseguenza. Gli animali si accoppiano perché ciò produce in loro sensazioni di piacere e solo come conseguenza, dal momento che si accoppiano, si riproducono. 

Altre sostanze connesse al piacere sono le endorfine e gli endocannabinoidi, un insieme di neuromodulatori che hanno un gran numero di effetti i cui risultati sono connessi alle sensazioni di rilassatezza, all’eccitazione, alla diminuzione della sofferenza, al piacere. Molti filosofi, si pensi per esempio ad Aristotele e Bergson, hanno messo in rilievo il fatto che il piacere sovente è il frutto dell’allentamento della sofferenza, per cui i comportamentisti hanno mostrato come non esista solo il rinforzo+, collegato alla somministrazione di un premio, ma anche il rinforzo-, frutto della sottrazione di uno stimolo spiacevole. La senzienza è pertanto una condizione fluida dell’essere animale che continuamente passa non solo tra stati di piacere e stati di sofferenza, ma anche tra momenti in cui l’evento edonico o algogeno viene somministrato e momenti in cui viene sottratto. La funzione delle endorfine si ricollega proprio a questo effetto: i) abbiamo emissione di endorfine nella stimolazione delle cosiddette zone erogene e nella gratificazione orale e gustativa, per esempio nell’assunzione di sostanze dolci negli onnivori e di proteine nei carnivori; ii) abbiamo liberazione di endorfine come mitigazione di dolore e affaticamento, durante gli sforzi muscolari, il dolore acuto, stimoli improvvisi di paura. Esistono, peraltro, una serie di molecole con funzione analgesica tra cui la famiglia degli endocannabinoidi, molecole che sono collegate anche ad altri effetti come l’eccitazione e la tendenza al gioco. Del resto anche l’eccitazione può determinare effetti piacevoli e inebrianti, da cui gli effetti collegati all’adrenalina, mentre un altro tipo di piacere è dato dal senso di rilassatezza e dalla regolazione dell’umore riconducibile all’azione della serotonina.

Quando il corpo è nelle migliori condizioni fisiche – perché non c’è debolezza, non è sottoposto a patologie o infiammazioni, tutti gli apparati sono perfettamente funzionali, non sono presenti disordini endocrini o metabolici – il piacere si presenta come un senso di leggerezza somatica che potremmo definire come un non-sentire il corpo, accompagnato da un’ebbrezza espressiva. E’ ciò che notiamo in un animale giovane, nella pienezza delle sue forze, che mostra la sua gioia di vivere attraverso il gioco, l’esuberanza cinestesica, la curiosità, la prontezza responsiva. Non possiamo non vedere come quella performatività fisiologica si traduca immediatamente in una condizione psicologica, ancora una volta riconducibile alla senzienza ossia al provare-qualcosa che, in questo caso, si manifesta come senso di potenza e di volontà. Una situazione opposta è data dalla malattia e dall’indebolimento fisico oppure dalla condizione di vecchiaia. Continuare a pensare gli animali esclusivamente sotto la lente fisiologica delle funzioni, ignorando che queste si ripercuotono sullo stato psicologico del soggetto, nei suoi diversi livelli di consapevolezza, compreso il modo inconscio, significa non vedere come l’essere un corpo si traduca in un principio di soggettività.  

Il piacere è legato ai bisogni fisiologici nella cosiddetta dialettica edonica che fa sì che ogni necessità produca una condizione spiacevole quando non assolta e piacevole allorché trova soddisfazione. Per tale motivo parliamo di welfare animale, in quelle situazioni dove i bisogni di base sono assolti, e di comfort animale, laddove le sue esigenze sono rese più facilmente accessibili. Aver fame è, pertanto, uno stato psicologico qualitativamente definito sotto il profilo affettivo che, parallelamente, ha delle ripercussioni sul sistema edonico. Questo si sviluppa per fasi successive: i) si parte da una condizione semi-piacevole di languore; ii) a questa consegue una sensazione leggermente spiacevole o sollecitante se non risolta attraverso l’assunzione di cibo; iii) quindi si passa a uno stato di forte sofferenza se il digiuno è protratto; iv) infine si produce una condizione di forte piacere allorché l’animale si alimenta. Stessa cosa si può affermare per qualsiasi grande funzione organica, come il dormire o lo svolgimento della minzione-defecazione, per cui l’esigenza attiva la dialettica sofferenza-piacere per favorire lo svolgimento. Quanto abbiamo detto per l’accoppiamento può essere ripetuto per l’assolvimento dei bisogni fisiologici: un animale assume il cibo per abbassare il senso di spiacevolezza dato dalla fame e accrescere il piacere; solo in seguito, dal momento che mangia, come conseguenza si nutre, ripristinando la condizione energetica e il ricambio.

Il piacere è collegato anche alle due aree disposizionali di base: i) le emozioni, come tendenze ad assumere l’atteggiamento e le risposte migliori agli avvenimenti che capitano al soggetto; ii) le motivazioni, come propensioni proattive, tese a produrre delle azioni che apportano risultati utili all’individuo. Le disposizioni definiscono in modo prioritario la condizione affettiva del soggetto e, come nel caso delle condizioni fisiologiche, fanno emergere stati psicologici traducibili come provare-qualcosa. Provare gioia o tristezza, così come aver voglia di mettere in atto una certa attività o essere richiamati a un’azione, vuol dire in sé provare-qualcosa. Parliamo di: i) senzienza emozionale o responsiva; ii) senzienza motivazionale o desiderante. Accanto a questo, è indubitabile che le emozioni e le motivazioni sono collegate al sistema del piacere, producendo: i) stati di pienezza disposizionale, ossia di wellbeing animale; ii) condizioni di alterazione disposizionale, definibili come stati di disagio. Alcuni animali, per esempio quelli ricoverati all’interno degli zoo, possono anche trovarsi in una condizione di welfare ma, non potendo esprimere la loro natura, mancano di wellbeing e sono sottoposti a stati di disagio, come: il dis-stress, la frustrazione, la noia, la demotivazione, l’iperstimolazione. In questi casi l’animale non può sottrarsi alla situazione di disagio, essendo chiuso nel recinto. Così, metterà in atto dei comportamenti compensativi o di dislocazione – come il grooming compulsivo, le attività sostitutive, etc – proprio per ripristinare uno stato di piacere o comunque allentare la sofferenza, dando vita però a vizi espressivi.

Il piacere, inoltre, può riguardare la struttura emozionale in sé, per cui parliamo di valenza emozionale, che ci fa dividere le emozioni in: i) negative, quelle che diminuiscono lo stato di piacere e producono una condizione di allerta e chiusura; ii) positive, quelle che, viceversa, aumentano il senso di piacere e favoriscono l’attenzione d’interesse e l’apertura. In realtà, le cose sono un po’ più complesse rispetto all’opposizione tra le due diverse tipologie di emozioni, perché anche le emozioni negative possono dar origine a stati di piacere: i) la rabbia con la sua espressione aggressiva è in grado di produrre uno sfogo che fa star bene l’individuo; ii) la paura in alcune circostanze, nel concorso di adrenalina ed endorfine, produce uno stato di ebbrezza. Le motivazioni sono quelle componenti disposizionali che motivano il soggetto all’azione, rendendolo sensibile a determinati richiami presenti nel mondo (segnali-chiave) e appetitivo nel compierle. E’ evidente che l’appetenza è una condizione psicologica, cioè un provare-qualcosa. D’altro canto, anche la condizione motivazionale è fortemente connessa al sistema edonico in tutte le sue fasi, per cui: i) in fase appetitiva il piacere è dato dall’interesse e dalla dopamina legata all’aspettativa; ii) in fase orientativa dalla presenza del target gratificante o del fattore evocativo; iii) in fase consumatoria dall’agibilità espressiva e dall’emissione di endorfine; iv) in fase di riposo prevalentemente dall’appagamento mediato dalla serotonina. Possiamo dire, allora, che il sistema edonico ha una sua rilevanza sotto il profilo della senzienza, ma rappresenta altresì un piano di collegamento tra quegli stati psicologici che dipendono dalle funzioni organiche e quelli che derivano da emozioni e motivazioni.

  1. Senzienza e affettività disposizionale

Le emozioni e le motivazioni rappresentano un aspetto centrale allorché si parla di senzienza perché ci mostrano come la vita psicologica di un animale non possa essere riportata in toto a variabili di ordine cognitivo e in generale di tipo elaborativo. Emozioni e motivazioni definiscono la condizione affettiva del soggetto che si esprime anche in questo caso nel principio di provare-qualcosa, definendo un piano di soggettività che potremmo indicare con il termine per-Sé. In effetti è proprio nella condizione emozionale e motivazionale dell’animale che ritroviamo quel carattere di soggettività che si affianca e, per certi versi completa, l’elettività dell’interazione individuo-mondo prevista dalla umwelt specie-specifica e singolare nell’individuo. Come sappiamo, l’umwelt si sviluppa con il concorso di sensitività e agentività, che nella loro dialettica disegnano quel contesto-mondo che potremmo definire dimensione esistenziale del soggetto o forma archetipica del Sé. Nel caso dell’affettività disposizionale ci troviamo di fronte a un’entità che rivendica un Sé sulla base d’interessi di cui è portatore e verso cui è orientato, per cui parliamo di un Sé che persegue i propri interessi attraverso l’atto d’interessarsi a ciò che succede nel mondo. Questo comporta un secondo piano di elezione rispetto alla umwelt, un piano che possiamo identificare con il principio d’interesse ossia la facoltà d’interfacciarsi al mondo in coerenza con i propri interessi. Per tale ragione diciamo che l’individuo mette in atto delle azioni nel proprio interesse ossia per-Sé.

Essere portatore d’interessi significa che, diversamente dagli oggetti, dagli strumenti e dalle macchine che sono, di fatto, disinteressati a ciò che accade loro, perché mancano d’interessi inerenti, la vita di un animale è sempre inserita all’interno di questa dimensione valutativa che riporta ogni ente-evento a sé. Ci sarebbe da discutere rispetto al concetto di inerenza animale e mi riprometto di farlo in un prossimo saggio. Diciamo, tuttavia, che questa inerenza interessata ha come base l’autodifesa, il proiettarsi nella realtà esterna, la replicazione, dando luogo a una condizione di teleologia intrinseca o telos animale. Ciò che qui m’interessa svolgere è l’argomento dell’affettività intesa come salvaguardia degli interessi inerenti, per cui diciamo che: i) le emozioni descrivono la condizione degli interessi del soggetto in riferimento alla circostanza specifica, per cui, se la tristezza indica uno stato di compromissione di questi, la rabbia indica che vengono ostacolati e la paura messi a rischio; ii) le motivazioni sollecitano il soggetto ad ampliare o raggiungere i propri interessi mettendo in atto delle azioni specifiche, per cui l’essere motivato vuol dire essere coinvolto-sospinto all’azione. L’essere motivato, tuttavia, non può essere mai definito in modo singolare perché a ogni motivazione corrisponde un interesse specifico e un’azione altrettanto determinata.

Per quanto concerne le emozioni spesso si legge che si tratta di risposte o reazioni che l’animale mette in atto davanti a una certa situazione. Questa definizione non è sbagliata ma è senza dubbio carente, perché taglia o comunque non tiene conto: i) della condizione psicologica insita nell’attivazione di un’emozione, e quindi dell’insieme degli stati mentali che vengono sollecitati nel momento di emergenza emozionale; ii) della soggettività che caratterizza l’emozione, una condizione del soggetto che, interfacciandosi con uno stimolo o un ente-evento, lo interpreta da un punto di vista emozionale. Certo, l’emozione scatena un treno di risposte fisiologiche e comportamentali e queste reazioni hanno un effetto ricorsivo sul soggetto, ma la condizione psicologica, sviluppata anche in modo inconscio, precede la risposta. Voglio in questo caso ribadire che, dal mio punto di vista, il provare-qualcosa ha a che fare con la soggettività, vale a dire con quella dimensione psichica che non necessariamente è vissuta con piena consapevolezza. Un animale può provare-qualcosa in modo del tutto inconscio o preconscio, perché questi eventi mentali ci sono e si verificano nella dimensione psichica del soggetto, anche se non sono esplicitati. Ci sono stati e hanno lasciato un segno nella sua biografia. Forse non riemergeranno mai, pur avendo modificato la marcatura di un’esperienza o le conoscenze assunte dal soggetto, ma il più delle volte daranno comunque dei frutti nel medio termine e magari arriveranno persino a riemergere. Quando dico provare-qualcosa non intendo avere piena consapevolezza di quello che si sta vivendo, bensì rimarcare il fatto che in un certo momento si è attivato uno stato psicologico nel soggetto.

La gioia o la paura, la rabbia piuttosto che il disgusto, producono modificazioni fisiologiche perché agiscono per esempio sul sistema simpatico o parasimpatico, attivano certe vie endocrine, cambiano la conduttanza della pelle o la funzionalità delle ghiandole apocrine. Tuttavia quando parlo di gioia, di paura, di rabbia o disgusto mi riferisco a condizioni psicologiche che s’irradiano su tutto l’encefalo, attivando spesso altre emozioni o motivazioni, modificando lo stato di arousal, riportando in primo piano dotazioni cognitive come ricordi, risorse valutative e operative, strategie di coping e anticipazioni. La gioia è pertanto prima di tutto uno stato psicologico del soggetto, che interseca il piacere, l’attenzione d’interesse, l’apertura esperienziale, la tendenza al gioco, la curiosità, le aspettative e quant’altro sia collegato a una visione di opportunità da cogliere. Anche la paura è uno stato psicologico, è un provare timore, collegato il più delle volte alla sofferenza, all’attenzione d’allerta, alla chiusura esperienziale, alla tendenza a ritrarsi e diminuire il movimento, alla diffidenza nei confronti di un’aspettativa. In questo caso totalmente differente perché collegata al rischio.

In quanto stati psicologici, le emozioni sono intimamente legate all’apprendimento in tutte le sue forme e alla facilitazione della memorizzazione di quella specifica esperienza. Quando il soggetto memorizza un’esperienza la collega alla condizione psicologica che ha vissuto, perché egli ha provato-qualcosa nel momento in cui si è trovato in quella particolare situazione. Sempre per lo stesso motivo, una condizione emozionale può riemergere in contesti e situazioni differenti, compresa la fase onirica, che, se anche dotata di un basso livello di consapevolezza, non per questo non è un provare-qualcosa. D’altro canto, lo stato psicologico emozionale non è mai dato in modo oggettivo dalle caratteristiche specifiche della circostanza, perché nell’emozione l’individuo manifesta la sua soggettività. Infatti, un profilo introverso o insicuro tenderà a privilegiare le emozioni di chiusura di fronte alle novità, mentre uno estroverso e sicuro manifesterà in prevalenza emozioni di apertura. Inoltre la senzienza non è fatta di compartimenti stagni, per cui una condizione ottimale della funzionalità del corpo o l’esaudimento dei bisogni essenziali produrranno una condizione di buon-umore, ragion per cui saranno favorite le emozioni positive nell’interazione con il mondo. L’umore detta una propensione temporanea rispetto alle emozioni evocabili che è influenzato dallo stato fisiologico del corpo, vale a dire da quei valori che dipendono dai bisogni di base. Se il corpo è in una condizione di difficoltà – come mancanza di sonno, fame, patologie, dolore, sete, alterazione della peristalsi, etc. – l’animale si troverà in una condizione di cattivo-umore. In questo caso, a parità di situazioni sarà in lui prevalente lo sviluppo di emozioni negative.

L’altra famiglia disposizionale che regge l’affettività di un animale è data dalle motivazioni, vale a dire da quelle tendenze che portano il soggetto a mettere in atto una certa azione. Le motivazioni, proprio come le diverse emozioni, sono propensioni innate, facilmente riconoscibili nelle divere specie perché espresse sia nei comportamenti finalizzati sia durante il gioco. Per comprendere le motivazioni di una specie è sufficiente osservare gli individui di quella specie mentre giocano o mettono in atto i comportamenti abituali rivolti alla realtà esterna. Nell’ambito motivazionale riconosciamo: i) prima di tutto un atto che si realizza in un’azione, potremmo definirlo una sorta di predicato verbale dell’attività, come rincorrere, esplorare, raccogliere, accudire, socializzare etc.; ii) alcuni elementi esterni in grado di suscitare quella motivazione, per esempio il segnale-chiave presente in un ente-evento o il target su cui è diretta l’azione; iii) un modo in cui viene condotta l’azione, che potremmo interpretare come la declinazione del predicato verbale, a partire da display innati molto generici che evolvono con l’esperienza in attività dotate di competenza; iv) da alcuni circostanziali di luogo o di tempo che derivano dall’esperienza. 

Il profilo motivazionale di una specie è dato da una sorta di menù di motivazioni che ne caratterizzano sia il comportamento finalizzato sia quello ludico, per cui riconosciamo una certa specie anche a seconda delle sue sensibilità di richiamo e coinvolgimento nonché dalle azioni che normalmente mette in atto. Tutti noi riconosciamo un cane per le sue tendenze collaborativa, predatoria, competitiva, affiliativa, perlustrativa: le ritroviamo nelle azioni che compie per raggiungere uno scopo e parallelamente nei suoi modi di giocare. Allo stesso modo riconosciamo la tendenza di un bambino di raccogliere, imitare, prendersi cura, competere, esplorare o quella di un gatto di nascondersi, fare agguati, rincorrere, saltare e via dicendo. Siamo portati a pensare che sia il target a indurre il comportamento, ma come già rilevato ampiamente da Lorenz, il target è solo l’elemento scatenante o evocativo, perché il vero movente è la motivazione. In pratica, se diamo a un gatto una pallina, lui la colpirà con la zampa per metterla in moto: il gatto non vuole la pallina, bensì ricorrere. La pallina è solo l’occasione per poterlo fare. Le motivazioni indicano le preferenze proattive presenti in quella specie, per cui il modo migliore per coinvolgere un individuo appartenente a una certa specie è ingaggiarlo su una o più motivazioni.

Le motivazioni indicano quali attività quella specie è portata a compiere, per cui, se l’individuo che le appartiene viene posto in un ambiente che non gli consente di esprimere il canone motivazionale, nel medio termine egli si troverà in una condizione di disagio. Si tratta, peraltro, di un disagio che produce danni rilevanti, inducendo nell’animale comportamenti sostitutivi anche molto gravi come l’autoamputazione o la depressione. Questo mi ha portato a rivedere la piramide di Maslow e a mettere in discussione la gerarchia dei bisogni, che a mio avviso non si presentano in forma stratificata – modello torta millefoglie – ma in modo orizzontale, come le tante fette di una pizza. Difatti, il bisogno assume una rilevanza non in base a un a-priori assoluto d’importanza bensì a seconda della particolare condizione in cui si trova l’individuo: per esempio, se durante il periodo degli amori o in fase di accudimento dei cuccioli. In effetti, le motivazioni ci mostrano come spesso l’appetenza espressiva prevalga su altri bisogni molto più spiccioli, come mangiare, bere e dormire, per cui la condizione di welfare o di comfort non è mai in grado di compensare l’impossibilità da parte dell’animale di poter esprimere le sue motivazioni di specie. Se è vero che le motivazioni si manifestano attraverso dei comportamenti, questo non deve farci dimenticare che la condizione motivazionale è prima di tutto uno stato psicologico, un provare-qualcosa.

Ma cosa prova un animale quando si trova in una condizione appetitiva? Sappiamo che esiste un’area dell’encefalo, il fascicolo prosencefalico mediale (MFB), un sistema che connette diverse regioni delle aree sottocorticali e ipotalamiche, la cui attivazione produce una condizione appetitiva, determinando uno stato desiderante. Potremmo definirlo come un generico stato di wanting, la tendenza alla ricerca, la persistenza del comportamento anche di fronte a delle difficoltà, la capacità di portare a salienza gli stimoli esterni. A questa condizione contribuisce l’attivazione delle vie dopaminergiche, capaci di dare un senso di euforia proattiva, che Panksepp-Biven definiscono nel loro libro L’archeologia della mente (2012, p. 107) come un senso positivo di voler-poter fare l’attività che ci si propone. Possiamo quindi definire la condizione appetitiva come uno stato desiderante, un languore che è prima di tutto urgenza d’azione e solo in seguito, nel rapporto con la realtà esterna, si trasforma in uno stato desiderato, vale a dire in una forma ben specifica di desiderio. Questo ci fa dire che il desiderio non nasce dalla mancanza e non è prodotto dall’oggetto del desiderio, ma si tratta del contrario: è l’attivazione appetitiva desiderante che produce il desiderato e quindi la sua ricerca attiva. Come nel caso del gatto e della pallina, anche noi siamo spinti dall’appetenza motivazionale, in questo caso del raccogliere, e solo in conseguenza di tale condizione desiderante siamo portati a fare quelle attività che sono rivolte agli oggetti da raccogliere.

Anche il desiderare è perciò un provare-qualcosa che precede ogni razionalizzazione, proposito e immaginazione e ricorda quell’anelito indefinito che il poeta Leopardi chiamava vaghezza. Gli oggetti diventano desiderabili perché l’individuo è già portato a compiere quell’azione, per cui una pallina in movimento non richiamerebbe mai un coniglio che per natura è mancante di motivazione predatoria. Se un bambino in riva al mare raccoglie conchiglie non è perché è mancante di conchiglie, bensì perché è desideroso di raccogliere e in quell’occasione le conchiglie rappresentano un’ottima occasione per trasformare la sua appetenza in un’azione e riceverne appagamento espressivo. La senzienza motivazionale è molto importante perché ci mostra come le alterità animali non siano solo entità che possono soffrire, ma che a loro è possibile applicare un principio esteso di preferenza. Lo definisco esteso perché non solo responsivo, ma anche elettivo, in quanto insito nella condizione desiderante prodotta dallo stato motivazionale. Gli animali sono, perciò, entità desideranti che si propongono nel mondo non solo per preservare la loro integrità fisica, ma anche per proiettarsi in quelle condizioni che noi umani chiamiamo semplicemente desideri. Diviene, perciò, chiaro come la senzienza vada molto oltre la famosa domanda del possono soffrire.

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