di Roberto Marchesini
La tradizione ci ha consegnato un’idea di animalità scarsamente analizzata nei suoi contenuti e basata essenzialmente su dei pregiudizi. Credo che la ragione di tale mancanza sia da assegnare al bisogno antropocentrico di porla come sponda opposta alla condizione umana. Da qui sorge lo scarso interesse investigativo su cosa sia effettivamente un animale e la tendenza a costruirne un’immagine attraverso il banale gioco degli opposti. La necessità di individuare una controparte fondale, da cui l’uomo potesse emergere in tutta la sua specialità, ha inevitabilmente messo una seria ipoteca sulla possibilità di sviluppare un’analisi libera dai pregiudizi e soprattutto incentrata sui caratteri propri della condizione animale. Così, a dispetto delle tante descrizioni, perlopiù formulate in termini comparativi con l’essere umano, dobbiamo ammettere la latitanza o comunque l’insufficienza di una riflessione filosofica veramente incentrata sulla dimensione ontologica dell’animalità. A mancare, a mio parere, è stata la capacità di evitare la caduta nel confronto ossessivo, una sorta di egocentrismo speculativo, che ostacola il focalizzarsi sul significato dell’essere animale.
Tale assenza speculativa è evidente in tante formulazioni dell’animalità: 1) l’idea che l’animale sia macchina, che trasforma la soggettività in mera apparenza, perché ciò che lo muove non è altro che un insieme di automatismi; ii) la concezione istintiva della sua espressione, che derubrica il comportamento in risonanza del passato e quindi in un’assenza rispetto al qui e ora; iii) la visione stimolativa che trasforma il suo orientamento in tropismo e l’atteggiamento in riflesso; iv) l’immagine di stordimento nella fruizione e di totale immersione nella funzione, che sancisce l’incapacità di emergere in un presente. Si arriva al paradosso di sostenere che un animale non possa avere obiettivi ma solo orientamenti di adescamento, che risolva le situazioni di problematicità attraverso tentativi casuali, che sia incapace di conoscenza ma solo di condizionamenti. La sua sofferenza non è dolore, le emozioni che vive non sostengono dei sentimenti, le sue esperienze non producono una memoria biografica, non ha desideri ma solo pulsioni, non ha creatività ma solo ripetizione di pattern prefissati, i suoi comportamenti non nascono da riflessioni bensì da inneschi, non muore ma cessa di vivere.
Possiamo dire che è proprio di fronte a questi ostacoli che si deve confrontare l’etologia filosofica per proporre una visione dell’animalità che superi la concezione oppositiva e la costruzione arbitraria di caratteri che non hanno alcuna attinenza con ciò che gli animali mostrano. Nello stesso tempo è evidente che una filosofia dell’animalità, se da una parte deve smascherare le attribuzioni improprie, infondate e soprattutto strumentali, dall’altra non può soffermarsi sui caratteri adattativi delle diverse specie. Questo è il compito dell’etologia descrittiva, per cui è proprio grazie all’osservazione e alle ricerche degli etologi sul campo se è possibile porre rimedio ai tanti pregiudizi che ancora campeggiano riguardo alle caratteristiche dei non-umani. Le caratteristiche specie specifiche, tuttavia, non sono altro che la risultante declinativa dell’animalità stessa, vale a dire il modo in cui quella specie manifesta la propria animalità. In questo senso, soffermandosi sull’identità di specie, si ricadrebbe sul terreno del confronto. Ma c’è un ulteriore errore metodologico che dobbiamo segnalare, se vogliamo comprendere il focus d’interesse dell’etologia filosofica: il pensare che un carattere adattativo – cioè su un carattere o predicato di specie – che pertanto si è plasmato su una correlazione specifica, possa essere assunto come denominatore comune dell’animalità. Non sono i predicati specie specifici, umani o non-umani, che possono rappresentare la condizione animale, bensì delle qualità che sopravvanzano le particolarità adattative, definibili come metapredicati dell’animalità. Si tratta di qualità molto generali e, tuttavia, speciali che connotano non l’essere quel particolare animale, bensì l’essere animale. L’etologia filosofica è, perciò, quella disciplina che si occupa della definizione ontologica della condizione di animalità, indagandone le caratteristiche metapredicative attraverso un principio inclusivo che ammette la pluralità specie specifica, ma non si sofferma su questa, e che individua le peculiarità della condizione animale all’interno della fenomenologia della vita.