È opinione comune il credere che l’antispecismo o, se si vuole, più comunemente l’animalismo sia un movimento teso esclusivamente a rivendicare i diritti delle specie non-umane, spesso senza riflettere che già il ritenere l’animalità come condizione opposta all’umano indichi forse la più grave forma di specismo.
Già, perché il prerequisito, per una cultura chiaramente aspecista, poggia sul riconoscimento di una comune appartenenza nell’animalità. Questo non significa negare uno specifico per l’essere umano, ma estenderlo a ogni animale, ritenendo l’appartenenza nient’altro che un modo particolare di declinare il proprio essere-animale. Ma il punto è un altro.
È lo stesso errore di chi considera la cultura vegan come una scelta alimentare, quando non addirittura una dieta, e non uno stile di vita. Per molti l’animalista è colui che si occupa degli animali o, al limite, dell’animalità, dando per accettate le classiche opposizioni della tradizione umanista.
Perché ci ostiniamo a parlare di “animali”, come se esistesse veramente una categoria omogenea di esseri viventi capaci di fungere da controtermine all’umano?
A ben vedere tale impostazione non riguarda solo gli eterospecifici ma diventa il leitmotiv di ogni forma di emarginazione, sfruttamento, colonialismo, sottomissione. Si tratta di un’operazione che ha come espressione esemplare l’idea umanistica di un’entità universale – l’Uomo di Vitruvio di Leonardo da Vinci – centro gravitazionale al cui cospetto ogni ente deve accettare di venir misurato e assegnato a un luogo orbitale, la cui distanza dal fulcro indica parimenti il grado di differenza e l’indice di inferiorità.
Identificare una meta incarnata, quel corpo centro dell’universo, rappresentò per gli Umanisti il modo per trasferire la dottrina della salvezza nel mito del progresso attraverso un ideale universale. Tuttavia questo significò enfatizzare quelle tendenze di rifiuto e stigmatizzazione della diversità già presente nella cultura ellenica nel concetto di oi barbaroi. Abbattere la dialettica dell’esclusione significa sostanzialmente: 1) mettere in discussione queste coppie oppositive, dimostrando il loro carattere strumentale, attraverso l’apertura di un panorama assai più complesso di varietà e parimenti la messa in luce di confini sfumati e di transizioni tra le diverse polarità; 2) rimarcare il carattere inclusivo e ibridativo di ogni evento dialogico e relazionale, che non determina mai un riconoscimento identitario per opposizione, ma sempre una contaminazione.
In realtà ci troviamo di fronte a un’interpretazione della natura fortemente piegata allo scopo di sostenere quanto già dato in premessa, attraverso acrobazie tautologiche, del tipo “l’uomo è superiore agli animali perché è umano”, vale a dire perché presenta una serie di qualità che sono caratteristiche della nostra specie. Sarebbe come dire che “un bianco è superiore a un nero perché è bianco”. L’appello alle leggi della natura è quanto mai fruibile per dimostrare qualunque tesi, giacché in natura possiamo riscontrare ogni eventualità.
La natura non ha un’ideale da raggiungere, una salvezza trascendente o un progresso, non stabilisce norme e non conosce il concetto di perfezione, perché nel grande calderone della vita ogni cosa viene continuamente messa in discussione. Essere antispecista significa pertanto avere un’idea completamente diversa della natura, assai meno statica e conservatrice di come in genere si è soliti raffigurarla con stile oleografico.
E soprattutto significa abbandonare, insieme a ogni forma di pregiudizio, l’appello alla normalità, perché già in esso si nasconde la madre di tutte le forme di emarginazione.